Insieme varchiamo il portone di quel palazzo antico, ritrovandoci improvvisamente immersi nella luce e nei rumori della città. Rompo il ghiaccio offrendoti un passaggio. Il tuo rifiuto è un sollievo: non sopporto il pensiero di condividere altro tempo con te e con i nostri silenzi forzati. Forse ancora mi capisci e la necessità di fuggire l’uno dall’altra è reciproca.
“Grazie, preferisco camminare, non fa tanto freddo”, sussurri un ciao guardando il marciapiede e ti allontani, lo sguardo a terra e le mani infilate nelle tasche del cappotto. A passo veloce ripercorro la strada che solo due ore prima abbiamo fatto insieme. Tu camminavi di fianco a me con il viso coperto dalla sciarpa viola, la tua preferita. Ci stavano aspettando nello studio fin troppo riscaldato. Il passaggio dal freddo al caldo ti ha riempito il viso di chiazze rosse, hai sorriso toccandoti la faccia bollente. Era già tutto pronto grazie alla loro proverbiale efficienza. Sono bastate due firme, qualche ulteriore spiegazione e tutto si è concluso. Quattro chiacchiere informali e del tutto inutili, strette di mano e sorrisi falsi ci hanno accompagnati alla porta.
Raggiungo il garage per ritirare l’auto e pago una cifra spropositata senza fiatare, all’interno c’è ancora il tuo profumo, ci rimarrà per giorni lo so, mi ha sempre infastidito quell’aroma così persistente nell’abitacolo. Sospiro abbassando il finestrino nonostante l’aria pungente, spero basti a liberarmene, vorrei servisse anche a liberarmi di te. Poi ti vedo, riconosco la colonna del portico dalla parte opposta della strada, ti ci nascondi dietro con lo sguardo a terra e le mani ancora in tasca. Esattamente come ti vidi dodici anni fa uscendo dalla facoltà dove ero appena stato proclamato “Dottore”. Allora cercavi di nasconderti da me e da chi festante mi accompagnava, il tuo volto era solo il ricordo sbiadito di una ragazza conosciuta per caso mesi prima in una città lontana. Un incontro accantonato nella mia mente insieme a tanti altri, un ricordo che era poi riemerso nelle migliaia di parole che cominciammo a scriverci e che riempirono per mesi la distanza fisica. Dodici anni fa attraversai quella strada con una stupida ghirlanda di alloro in testa per abbracciarti e chiederti di restare. Ora tu continui a cercare riparo dietro di essa per sfuggire alle tue colpe, alle tue ragioni e a chi distrattamente ti passa accanto.
Un pensiero molesto e fugace mi attraversa la mente, quasi mi spinge ad attraversare quella via, a scansare ancora una volta il traffico per raggiungerti e ricreare, come due attori impacciati, una nuova scena perché la precedente ha fallito. Mi raggiunge il suono fastidioso di un messaggio: lei mi chiede se può chiamarmi. Lei che sa sempre quando è il momento più opportuno, lei sempre così presente e mai invadente, lei che comprende e non giudica, lei che ascolta e non commenta, lei, lei che ora è tutto tranne te.
Rispondo che la chiamerò io, domani. Chissà se anche tu riceverai un messaggio da chi vorrebbe esserti accanto in questo momento, anche tu lo richiamerai domani?
Tento di riacciuffare il pensiero di prima, troppo tardi ormai: sta già svoltando l’angolo insieme a te.
Rialzo il finestrino, ancora una volta mi hai mentito: fa molto freddo oggi.